Il caffè fa bene o male al cuore?
La ricerca suggerisce che bere 3 tazze di caffè al giorno, o consumare 200-300 mg di caffeina, potrebbe ridurre il rischio di sviluppare malattie cardiometaboliche multiple. Questo studio condotto da Chaofu Ke e il suo team, basato sui dati di oltre 172.000 partecipanti, ha rilevato che coloro che consumavano moderatamente caffè o caffeina avevano un rischio inferiore del 48,1% di sviluppare multimorbilità cardiometabolica rispetto ai non consumatori. Questa condizione si riferisce alla presenza contemporanea di malattie come diabete di tipo 2, ictus o coronaropatie. Ma che cos’è la caffeina? La caffeina è uno stimolante naturale presente in caffè, tè, cacao e alcune bevande energetiche. Agisce bloccando l’adenosina, un neurotrasmettitore che promuove il sonno, e stimolando il rilascio di dopamina e norepinefrina, migliorando così l’attenzione e la vigilanza. Sebbene possa aumentare l’energia e la concentrazione, un consumo eccessivo può causare nervosismo, insonnia e tachicardia. La tolleranza alla caffeina può variare notevolmente tra gli individui, e il suo effetto dipende dalla quantità assunta e dalla sensibilità personale.
Quanta caffeina è troppa per il cuore?
Secondo i risultati dello studio, consumare meno di 100 mg di caffeina al giorno non offre la stessa protezione cardiometabolica. Al contrario, una quantità moderata di caffeina è stata collegata a un rischio ridotto di multimorbilità in quasi tutte le fasi di sviluppo della malattia. Tuttavia, è importante non eccedere con il consumo, poiché ulteriori ricerche sono necessarie per comprendere l’impatto di dosi elevate di caffeina.
Il ruolo protettivo del caffè sulla salute cardiometabolica
La multimorbilità cardiometabolica rappresenta un problema crescente con l’invecchiamento della popolazione. Questo studio dimostra che promuovere il consumo moderato di caffè potrebbe essere una strategia preventiva contro lo sviluppo di più malattie cardiometaboliche. Infatti, le persone con questa condizione hanno un rischio di mortalità da 4 a 7 volte superiore rispetto a chi non ne è affetto.
